venerdì 20 marzo 2015

La coabitazione sindacale


di Giorgio Cremaschi – Stando alle loro ultime  note ufficiali, tra le  due segreterie Cgil e FIOM, non ci dovrebbero essere disaccordi di fondo. Entrambe sostengono la linea uscita dall’ultimo direttivo nazionale della confederazione, la ricerca dell’unità con Cisl e Uil e una politica di alleanze sociali e politiche per contrastare il Jobact. La segreteria della FIOM rivendica con toni persino polemici il suo accordo con tutte le scelte della confederazione. E in effetti dalla conclusione del congresso nazionale del maggio scorso non c’è un solo atto importante della Cgil che non sia stato votato assieme da Camusso e Landini. Che per altro avevano iniziato il congresso con un documento comune pomposamente dichiarato come unitario, in quanto la nostra piccola opposizione non veniva neppure presa in considerazione. Poi con l’accordo del 10 gennaio 2014 tra Cgil Cisl Uil e Confindustria si determinava un’aspra rottura. Il segretario della Fiom accusava, a ragione,  la Cgil di aver sottoscritto il sistema di relazioni sindacali voluto da Marchionne. Un sistema di diritti e rappresentanza concesso solo ai firmatari dell’accordo, dunque in pieno contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale che aveva riammesso la FIOM in Fiat nonostante non fosse firmataria degli ultimi accordi. Un sistema fondato sul principio della cosiddetta esigibilità, cioè sul vincolo per i sindacati firmatari e per i loro  delegati, di  non organizzare contrasto di alcun tipo verso gli accordi non condivisi, pena sanzioni. Landini contestò duramente quell’intesa e ruppe l’unità congressuale con Camusso. Che a sua volta accusò il segretario della FIOM di incoerenza per aver condiviso gran parte del percorso che aveva portato all’accordo. Dopo il congresso però i due si riappacificarono e condussero assieme la campagna contro il Jobs act di Renzi. Ora il nuovo contrasto, ma su cosa?
La coalizione sociale è una nuova formazione politica? Landini smentisce risentito, anzi scrive addirittura che essa non è contro nessun partito politico. Al sindacato serve una coalizione sociale? Camusso dice sì, ma poi nega che sia quella proposta da Landini, che viene accusato di ambiguità sulla politica. Onestamente non si capisce molto e se non ci fosse una colossale sovraesposizione mediatica di tutta questa vicenda, la sole cose evidenti sarebbero la crisi e la confusione del gruppo dirigente del maggiore sindacato italiano.
È la terza volta negli ultimi venti anni che la FIOM tenta una coalizione sociale. La prima fu con i movimenti no global all’epoca del G8 di Genova. Il segretario della Fiom Claudio Sabattini, con il gruppo dirigente di allora, decise di rompere con Fim e Uilm sul contratto nazionale e di partecipare alle manifestazioni nel capoluogo ligure nonostante che il segretario della Cgil Sergio Cofferati avesse pubblicamente chiesto di non farlo. Nel 2006 la Fiom guidata da Rinaldini manifestò contro il governo Prodi assieme a sindacati di base e centri sociali, anche allora nonostante il pubblico veto della Cgil. Ma quel percorso si esaurì proprio sul nodo e sui vincoli dei rapporti tra FIOM e Cgil. Quel nodo si ripropose nel 2010, quando l’appena eletto Landini disse di no su Pomigliano a Marchionne, a Cisl Uil, al PD e anche alla Cgil.  Per alcuni mesi attorno a quel no si costruì un vasta mobilitazione sociale, ché sfociò nella manifestazione del 16 ottobre 2010 a Roma e ancor di più nello sciopero generale dei metalmeccanici del gennaio 2011, che per la prima volta vide accanto alla FIOM le sigle dei principali sindacati di base e gran parte dei movimenti sociali più radicali. Fatto senza precedenti per un segretario della Cgil in quella città, nella piazza Maggiore di Bologna Susanna Camusso fu pesantemente contestata da gran parte dei manifestanti che chiedevano lo sciopero generale.
In una riunione in quei giorni sostenni che se la FIOM avesse davvero voluto consolidare il movimento e la coalizione sociale che si era costruita con gli operai della Fiat, avrebbe dovuto mettere in conto la rottura con la Cgil. Ma il segretario della FIOM respinse nettamente questa mia proposta. Si tentò allora di costruire un sostituto di un progetto più radicale, con la coalizione “Uniti Contro la Crisi”, che alla FIOM univa una parte dei centri sociali e organizzazioni giovanili e studentesche, riconducibili all’area politica di Sel. Quel tentativo fu travolto dagli scontri della manifestazione del 15 ottobre 2011.
Ora il gruppo dirigente della FIOM ripropone ancora la formula della coalizione sociale. Ma gli interlocutori attuali non sono gli stessi delle passate esperienze. Mancano totalmente il sindacalismo di base e il dissenso Cgil, anche perché la FIOM ha deciso una  svolta rispetto alle  sue pratiche degli ultimi 20 anni,  affidandosi all’accordo con Fim e Uilm per il rinnovo del contratto nazionale. Mancano l’arcipelago dei centri sociali e i movimenti radicali come i Notav e i Noexpo. Mancano molte forze con cui la FIOM ha dialogato e manifestato assieme nel passato, mentre gli inviti selezionati sono stati inviati ad associazioni che, pur di grande prestigio, non siano in totale rottura con il PD ed il suo sistema di alleanze e potere. E infatti Libera ed ARCI hanno subìto tenuto a precisare che possono sostenere singole campagne, ma non potranno mai far parte di una coalizione formalmente organizzata.
La nuova coalizione lanciata dalla Fiom parte dunque su basi più incerte e sicuramente meno radicate che nel passato, eppure rispetto ad altre iniziative dell’organizzazione ha avuto una risonanza assai maggiore, perché?
La prima ragione sta nella portata stessa della sconfitta della Fiom, della Cgil, della sinistra e del mondo del lavoro di fronte alle politiche liberiste e di austerità. La distruzione dell’articolo 18, che nel passato la Cgil riuscì ad impedire, è lo sfondamento formale e simbolico del fronte del lavoro dopo trenta anni di ritirata più o meno organizzata e contrattata. Il lavoro è sottoposto al massacro sociale ed il sindacato ex più forte d’Europa mostra tutta la sua mastodontica fragilità. Il fatto che questa resa dei conti finali col lavoro sia guidata dal leader del partito democratico ribalta poi tutti i punti cardinali del tradizionale modo d’agire della Cgil. Che reagisce a questo disastro oscillando tra l’identificazione con il dissenso politico verso Renzi e la ricerca dell’autonomia corporativa con Cisl Uil e Confindustria, di cui l’accordo del 10 gennaio è la formalizzazione. Nella linea e nei comportamenti concreti della Cgil non c’è alcun progetto di riconquista, ma una sorta di gestione della sconfitta che non può che provocare altre cadute. Su questa debolezza   prende vigore il ruolo di Landini, che in concreto non propone nulla di diverso dalla CGIL, come egli stesso puntualmente precisa, ma che raccoglie invece le speranze di chi, critico verso Cgil e PD, si augura che le cose cambino. Landini incrocia le speranze di cambiamento giusto che periodicamente si manifestano e per questo la domanda nei suoi confronti è prima di tutto politica. D’altra parte è qui c’è la seconda ragione del suo successo, Landini emerge come leader nell’attuale politica ultra personalizzata e governata dai talk show. La coalizione sociale oggi proposta dalla FIOM è la più verticistica e rarefatta tra quelle sperimentate in questi anni, in realtà non ruota neppure attorno al sindacato, ma alla figura del suo leader.
La ragione del successo di Landini, il suo muoversi con grande amplificazione mediatica nel vuoto segnato dalla sconfitta della sinistra e del sindacato, è però anche causa del limite di fondo della sua iniziativa. La proposta attuale di coalizione sociale allude ad una forza politica, ma poi nega di volerla costruire. Si proclama la necessità di cambiare il sindacato, ma poi si afferma di volerlo fare con chi il sindacato ha condotto al punto attuale. Sul piano dei contenuti programmatici, Europa, euro e politiche di concertazione e compatibilità sono sostanzialmente ignorate, mentre PD, Confindustria e sistema di potere vengono sì criticati, ma non definiti come avversari.
Ci vorrebbe insomma una vera rottura per evitare strade già percorse senza risultati. Invece, pur polemizzando duramente tra loro, Camusso e Landini coabitano nella stessa crisi sindacale e alla fine offrono ad essa risposte concorrenziali, ma simili.


1 commento:

  1. Il punto non è se Landini può o non può "fare politica". Il punto è con quale strumento incidere per uscire dalla crisi strutturale del movimento operaio. Il sindacato è alla frutta e non avrà mai più il ruolo che ha avuto in passato, semplicemente perché il sistema capitalistico globalizzato non ne ha più bisogno. Oggi le strutture politiche e sociali perdono valore rapidamente, in favore di una tendenza autoritaristica e centralizzante che pervade ogni ambito sociale. E' la dittatura dell'economia gestita dalle multinazionali. E' un processo innescato negli anni '70 e oggi quasi giunto al termine. E' il naturale compimento del percorso capitalistico che qualcuno aveva predetto (e non era Nostradamus!).
    Come se ne esce? Semplice: negando radicalmente quel sistema, rifiutando ogni sua forma, criticandone le strutture fondanti. Da qui si parte per costruire coalizioni sociali, che poi, se siamo bravi, possono magari incidere sulla realtà. Landini, in sostanza, cosa propone? Un'aggregazione nata da un incontro di vertice a porte chiuse! A quali strati sociali si rivolge il suo discorso? Non è dato sapere! E allora qual è il suo obbiettivo? Oggi, nella situazione drammatica in cui ci dibattiamo, ad ogni livello, non c'è spazio per un riformismo ambiguo: ogni forma di opposizione che non rompa nettamente con l'ordine costituito e' destinata ad essere riassorbita dal potere totale delle istituzioni economiche (vedi Grecia).

    Giacomo

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