Lezioni di lotta di classe dal movimento francese contro il Jobs Act
Verrebbe da parafrasare la nota canzone di De André di fronte alla palese differenza della reazione della classe lavoratrice e della grande maggioranza della popolazione francese all’introduzione di una legge sul lavoro che ricalca il Jobs Act entrato in vigore in Italia dal marzo del 2015.
La loi travail (legge sul lavoro o Jobs Act per l’appunto) presentata dalla ministra Myriam El Khomri prevede:
– la possibilità per le aziende di raggiungere accordi con i sindacati in deroga al limite legale della giornata lavorativa (10 ore) fino a 12 ore. La durata della settimana lavorativa può essere portata dalle 35 ore previste per legge a 60 con un provvedimento del ministero del lavoro in caso di “circostanze eccezionali”, con il solo limite di non superare la media di 48 ore settimanali calcolate su una media di 16 settimane;
– la possibilità di derogare a livello di singolo stabilimento agli aumenti salariali per il lavoro straordinario stabiliti dai contratti collettivi nazionali, fino a un minimo del 10% (prima era il 25% salvo condizioni migliori stabilite dai contratti collettivi);
– la possibilità di effettuare licenziamenti economici non solo in caso di cessazione dell’attività o di una ristrutturazione tecnologica, ma anche semplicemente dopo due mesi di perdite d’esercizio;
– massimali nei risarcimenti per licenziamenti illegitttimi dalle 3 alle 15 mensilità di stipendio a seconda dell’anzianità di servizio, abbassando ulteriormente i massimali previsti dalla pessima legge Macron del 2014;
– la possibilità per l’azienda di imporre accordi ai sindacati attraverso referendum tra i lavoratori, purché siano indetti da sindacati che abbiano ottenuto almeno il 30% dei consensi nelle elezioni aziendali;
– la possibilità per le aziende di concludere accordi di compressione salariale di durata fino a due anni non solo nel caso siano necessari per il mantenimento dei livelli occupazionali (una sorta di contratti di solidarietà) ma anche al fine di espandere gli affari e conquistare nuovi mercati;
– infine, ma è il fulcro principale della riforma, la supremazia degli accordi aziendali su quelli di settore, anche per le disposizioni peggiorative delle condizioni per i lavoratori, invertendo il principio di miglior favore preesistente.
– la possibilità per le aziende di raggiungere accordi con i sindacati in deroga al limite legale della giornata lavorativa (10 ore) fino a 12 ore. La durata della settimana lavorativa può essere portata dalle 35 ore previste per legge a 60 con un provvedimento del ministero del lavoro in caso di “circostanze eccezionali”, con il solo limite di non superare la media di 48 ore settimanali calcolate su una media di 16 settimane;
– la possibilità di derogare a livello di singolo stabilimento agli aumenti salariali per il lavoro straordinario stabiliti dai contratti collettivi nazionali, fino a un minimo del 10% (prima era il 25% salvo condizioni migliori stabilite dai contratti collettivi);
– la possibilità di effettuare licenziamenti economici non solo in caso di cessazione dell’attività o di una ristrutturazione tecnologica, ma anche semplicemente dopo due mesi di perdite d’esercizio;
– massimali nei risarcimenti per licenziamenti illegitttimi dalle 3 alle 15 mensilità di stipendio a seconda dell’anzianità di servizio, abbassando ulteriormente i massimali previsti dalla pessima legge Macron del 2014;
– la possibilità per l’azienda di imporre accordi ai sindacati attraverso referendum tra i lavoratori, purché siano indetti da sindacati che abbiano ottenuto almeno il 30% dei consensi nelle elezioni aziendali;
– la possibilità per le aziende di concludere accordi di compressione salariale di durata fino a due anni non solo nel caso siano necessari per il mantenimento dei livelli occupazionali (una sorta di contratti di solidarietà) ma anche al fine di espandere gli affari e conquistare nuovi mercati;
– infine, ma è il fulcro principale della riforma, la supremazia degli accordi aziendali su quelli di settore, anche per le disposizioni peggiorative delle condizioni per i lavoratori, invertendo il principio di miglior favore preesistente.
Insomma un grandissimo regalo alle imprese e una mazzata alle lavoratrici e lavoratori: smantellamento della giornata lavorativa legale, tagli ai salari, destrutturazione dei contratti collettivi, maggiore libertà di licenziamento. Il primo ministro Valls non ha esitato a dichiarare che la legge del suo governo si è ispirata al Jobs Act italiano.
La risposta popolare all’attacco di Hollande & co. non ha tardato a manifestarsi in modo imponente. La scintilla che ha fatto partire la mobilitazione si è innescata sui social network con la petizione lanciata dalla femminista Caroline De Haas il 19 febbraio per il ritiro del progetto di legge. Gli studenti hanno cominciato a protestare contro una legge che si accanisce contro i giovani (futuri) lavoratori condannandoli alla precarietà ed a condizioni di lavoro indegne.
Il 9 marzo è stato indetto il primo sciopero generale, in cui sono scesi in piazza oltre mezzo milione di lavoratori e cittadini. Da allora si è succeduto un calendario fittissimo di mobilitazioni nazionali e locali contro la riforma del diritto del lavoro, i sindacati si sono coordinati in un’intersindacale che comprende la Cgt, Force Ouvriere, Solidaires, la Fcu (nel settore dell’istruzione) e i sindacati studenteschi Unef, Unl e Fidl. Rimane fuori solo la Cfdt che continua a sostenere il governo socialista.
Il protagonismo degli studenti e più in generale la solidarietà dei cittadini a fianco dei lavoratori si è espressa nel movimento Nuit Debout a partire dalla giornata di mobilitazione del 31 marzo con l’occupazione di Place de la Republique a Parigi oltre che di tante altre piazze, scuole e università in tutta la Francia. Si è creata una forte pressione sui sindacati per uno sciopero generale ad oltranza fino al ritiro della legge. I lavoratori del porto di Le Havre sono entrati in sciopero ad oltranza dal 25 maggio. Dodici centrali nucleari su diciannove hanno votato lo sciopero a oltranza, e iniziato a rallentare la produzione verso lo spegnimento. In sciopero anche i lavoratori del gruppo automobilistico PSA, quelli dei cantieri navali, quelli della logistica in Amazon France. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i blocchi dei depositi di carburante e tutte le principali raffinerie del paese sono entrate in sciopero. Dal 31 maggio è stato indetto lo sciopero ad oltranza nelle ferrovie, anche se la Cfdt si è sfilata dalla mobilitazione in questo settore, che riguarda anche altre questioni oltre alla loi travail, per evitare di sfidare direttamente il governo.
Intanto il governo, consapevole di essere in minoranza nella società (i sondaggi d’opinione hanno rivelato che circa il 70% della popolazione è contraria alla loi travail), ha imposto il 12 maggio scorso la propria legge, utilizzando il dispositivo dell’articolo 49-3 della costituzione francese, che consente, di approvare in prima istanza una legge senza il voto del Parlamento, che può opporsi solo sfiduciando il governo stesso.
Contemporaneamente le mobilitazioni di piazza hanno incontrato una durissima repressione poliziesca, anche in virtù dello stato di emergenza dichiarato dopo gli attentati a Parigi dello scorso novembre, che è stato prolungato ad arte per usarlo contro i movimenti sociali. Centinaia sono i feriti nelle manifestazioni di piazza, gli arresti e le denunce contro gli attivisti, con cui il governo cerca di presentare il movimento come illecito e violento, nel tentativo di dividere i lavoratori e i giovani, le direzioni sindacali dai manifestanti, e recuperare consensi nell’opinione pubblica. Per ora questa operazione non ha avuto successo e il duo Hollande-Valls risulta essere tra i più impopolari della storia della Quinta Repubblica.
Il 14 giugno, quando la legge andrà in discussione al Senato, ci sarà uno sciopero generale e una manifestazione nazionale di protesta, una giornata che sarà decisiva per lo sviluppo del movimento. E’ chiaro che il governo non ha alcuna intenzione di retrocedere e che lo scontro ha una valenza politica generale, come in Italia sulle principali riforme messe in atto da Renzi. Il movimento dovrà essere in grado di mettersi a questo livello e innescare uno sciopero generale ad oltranza in tutte le categorie per chiedere le dimissioni del governo.
La differenza evidente tra l’esperienza francese e quella italiana sembra essere, almeno fino ad ora, il ruolo giocato dalle direzioni dei principali sindacati dei lavoratori. In Italia la maggioranza della Cgil, che si poteva fare interprete di una stagione di lotta nell’autunno del 2014 contro il Jobs Act e nel 2015 contro la riforma della scuola, ha abbandonato anzitempo il campo dello scontro sociale lasciando disorientati e isolati i lavoratori, arrivando fino a sanzionare come incompatibili quelli che continuavano ad opporsi alle politiche padronali come negli stabilimenti Fiat di Termoli e Melfi. Non è un caso che la Camusso abbia già rilasciato dichiarazioni critiche verso le mobilitazioni francesi, nonostante siano promosse anche da sindacati che fanno parte della stessa confederazione europea della Cgil.
La Francia sta dimostrando, in un paese con una situazione politica e sociale per molti versi simile a quella italiana, che non solo il movimento operaio non è morto, ma che le mobilitazioni dei lavoratori e delle lavoratrici possono trainare una ripresa di protagonismo sociale di tutte a tutti gli sfruttati ed oppressi, possono essere saldate con le istanze di democrazia degli studenti e dei cittadini, possono mettere in crisi le politiche capitalistiche dominanti in Europa.
Il movimento francese ha già contagiato il Belgio, dove i lavoratori pubblici e privati si stanno mobilitando contro la legge Peeters, che prevede una aumento dell’orario di lavoro. Le politiche di austerità vengono applicate in Europa in modo diseguale nei tempi ma combinato negli intenti comuni di attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori. La Grecia con il suo terzo memorandum imposto ai cittadini da un governo sempre più succube della troika e screditato agli occhi dei lavoratori è l’avanguardia dell’opera di redistribuzione massiccia dai salari ai profitti. Anche lì sta ripartendo un’opposizione sociale alle politiche di austerità, con tutte le enormi difficoltà da superare, a partire dalle direzioni sindacali che simpatizzano con il nemico.
Dalla Francia e dalle esperienze di lotta sui posti di lavoro che ancora resistono in Italia bisogna prendere l’esempio per far ripartire la lotta dal basso, costruendo dappertutto comitati di lotta a prescindere dall’appartenenza sindacale o politica, organizzare assemblee sui posti di lavoro, nelle scuole e nei quartieri delle città per mettere in discussione la linea antidemocratica e antisociale del governo Renzi. Le organizzazioni sindacali vanno costrette a scendere in campo ed a fare sul serio, prima che sia troppo tardi. La prossima stagione referendaria contro le pessime riforme istituzionali, per la riconquista della dignità del lavoro (Jobs Act) e del diritto ad una istruzione libera (Buona scuola), per fermare lo scempio ambientale (inceneritori, trivelle, acqua) non può vincere se non c’è uno slancio di mobilitazione dal basso che rimetta in discussione il governo dei padroni e delle politiche di austerità.
Al movimento francese va tutta la nostra solidarietà, ma più che a parole dobbiamo esprimerla con la ripresa delle lotte su scala europea, la stessa scala su cui si impongono oggi le politiche delle classi dominanti.
https://sindacatounaltracosa.org/2016/05/31/anche-se-il-vostro-maggio-ha-fatto-a-meno-del-nostro-coraggio/
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