Di fronte alla situazione generale dei lavoratori, che vedono il loro posto di lavoro farsi sempre più precario, malpagato e insostenibile, alcune ricorrenti misure finanziarie o legislative rappresentano solo una parte del problema reale.
I proletari hanno sempre vissuto in una condizione precaria più o meno accentuata a seconda della situazione economica. Ma oggi, con la crescente automazione e razionalizzazione, con il risparmio di una quantità enorme di manodopera, il posto di lavoro diventa più aleatorio che mai, e una parte crescente della popolazione diventa semplicemente superflua. Inoltre i prezzi delle merci, compreso quello della forza-lavoro, si confrontano direttamente sul mercato globale. Così un salario occidentale non può certo competere con uno cinese o indiano. Quindi leggi apposite (Treu, Biagi) prendono atto del cambiamento cercando di istituzionalizzare le condizioni "asiatiche" venutesi a realizzare sul territorio nazionale. Le aziende possono in tal modo mantenere un nucleo di lavoratori "fidelizzati", accedere a una "riserva indiana" poco costosa e senza vincoli, e sfruttare al massimo la concorrenza fra lavoratori che ne deriva. Insomma possono disporre di una forza-lavoro-usa-e-getta.
L'avere o meno un posto di lavoro, e di che tipo, dipende dunque da parametri mondiali che nessun governo è in grado di dominare. La massa degli occupati è invariata da anni, quella dei salariati produttivi diminuisce e con essa quella del salario, ma il valore totale prodotto (PIL) cresce, seppure di poco; è evidente che questa crescita è dovuta al maggior plusvalore estratto dalla diminuita forza-lavoro produttiva. In tale contesto le leggi appositamente studiate non fanno che prendere atto di quanto è già successo. Non sono le leggi che hanno prodotto la precarizzazione, è la precarizzazione che ha prodotto le leggi.
È un processo irreversibile e ad esso non si può rispondere con la crescente, passiva divisione dei lavoratori in due mondi, fissi e precari. Certo, in situazioni locali, la lotta organizzata può strappare dei risultati parziali, ma non si può pensare che ciò risolva il problema generale. Se l’atipicità, la precarietà e il supersfruttamento sono - e lo saranno sempre di più - le condizioni normali di milioni di lavoratori, allora si impone un'organizzazione adatta a questo tipo di rapporto di lavoro e una lotta conseguente. Gli schemi sindacali corporativi sono ormai fagocitati dal sistema che li utilizza a sua esclusivo vantaggio. Anche l'organizzazione per posti di lavoro e per mestiere non ha più senso quando non ci sono più i posti di lavoro e i mestieri. Occorre pensare seriamente a un'organizzazione territoriale che abbracci tutti i lavoratori indipendentemente dal tipo di contratto e di mestiere. Tra l'altro il sindacato funzionava già così prima che negli anni '20 lo stalinismo lo stravolgesse.
Le discussioni sull'adesione a certe organizzazioni sindacali piuttosto che ad altre non hanno alcun senso: la difesa degli interessi proletari e delle condizioni di lavoro e di vita non è una questione di forme ma di forza, e la forza dipende anche da come ci si schiera in campo obbligando qualsiasi sindacato ad adeguarsi, come è sempre successo. Per lavoratori estremamente ricattabili, divisi, che lavorano insieme a quelli con posto fisso solo per periodi brevi, non ha senso l'organizzazione legata al posto di lavoro. Essi devono organizzarsi fuori, indipendentemente dal lavoro che fanno, dove e per conto di chi. Oggi come non mai questo vale per tutti i lavoratori, in una saldatura comune di interessi che impedisca la frammentazione della loro forza.
Qualche anno fa la lotta dei lavoratori ultra-precari americani della UPS, con i loro compagni assunti a tempo indeterminato, è stata un ottimo esempio, seguito da altri lavoratori in tutto il mondo. Essi per primi hanno dimostrato che la congiunzione tra coordinamento territoriale, strumenti moderni (cellulari, internet, navigatori Gps, ecc.) per i picchetti volanti e tanta solidarietà organizzata possono battere i più blindati padroni, i sindacati reazionari e persino gli Stati. Non si tratta di esaltare gli strumenti al posto della lotta, si tratta di capire che la lotta va condotta con gli strumenti e l'organizzazione adeguati sia allo scopo che alla situazione sul campo.
Novembre 2005
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