di Sergio Bellavita
Il 9 e 10 gennaio
l’esecutivo nazionale Cgil si è riunito in una due giorni potenzialmente
ambiziosa. Il tema era il rapporto tra il PD, la Cgil e il contesto sociale e
politico che le scelte di Renzi hanno definito. Susanna Camusso ha introdotto
la discussione sottolineando il carattere strutturale della rottura con il PD,
oltre lo stesso Renzi, la scomparsa cioè di un partito di riferimento per la Cgil e quindi il delinearsi,
insieme alle implicazioni pesanti del Jobs Act, di una situazione del tutto
inedita.
Ha lamentato il fatto che non tutti i quadri dell’organizzazione hanno compreso
la necessità di elaborare il lutto di questa rottura. Ha criticato il dualismo
esistente nell’organizzazione tra la rottura profonda di vertice Cgil PD e i
buoni rapporti che a livello locale continuano determinando un dualismo non più
sostenibile. Si è quindi interrogata su quale possa essere il rapporto
tra la politica e il sindacato anche e soprattutto alla luce delle aspettative
di massa che la Cgil
ha raccolto intorno a se con la manifestazione del 25 ottobre. No ad una Cgil
area di minoranza del PD, no a costruire nuovo partito. La Cgil non può divenire il
sindacato della nostalgia, minoritario e che raccoglie la fiaccola della
resistenza ma deve assumere un ruolo da protagonista nella sfida posta. Proprio
perché vogliono collocare il sindacato confederale tra le cose inutili.
Innovare quindi perché indietro non si torna, è sinteticamente la riflessione
di Camusso. Da qui ha introdotto il tema del rapporto tra le aspettative che le
piazze delle mobilitazioni hanno posto e le risposte possibili. Ha chiuso a
nuovi scioperi generali a breve, il direttivo Cgil è infatti convocato per il
18 febbraio dopo un passaggio con la
Uil e il tentativo di ricucire con la Cisl, affermando che la
partita non si giocherebbe nelle piazze ma nella contrattazione, nel
radicamento nei luoghi di lavoro e infine non si scapperebbe dalla
indispensabile unità sindacale. Si è interrogata quindi su quale profilo si
debba assumere in quanto nessuno, nemmeno la Cgil, sarebbe immune dai condizionamenti dei
processi in corso. Rappresentanza e contrattazione devono divenire il luogo
entro cui, secondo Camusso, si ricostruisce radicamento sindacale. Non si deve
cadere nella pratica dell’art.8 di Sacconi, bisogna decidere se stare o meno
dentro le commissioni di conciliazione del nuovo sistema. Infine secondo
Susanna Camusso non si deve cedere al leaderismo in questa fase, cosa che
riguarda tutti i corpi di rappresentanza, mentre bisognerebbe che i dirigenti
Cgil facessero un passo indietro cedendo un po’ di potere verso il basso, a
quadri e iscritti, riconoscendo cosi il valore delle persone e dei processi
decisionali collettivi. La discussione che si è aperta ha rappresentato
bene il disorientamento e la crisi della Cgil. Tra chi vorrebbe ricostruire il
rapporto con il PD o non lo ha mai interrotto a chi pensa che il sindacato
debba costruire un nuovo soggetto o almeno essere parte di esso. Sul terreno
della contrattazione insediamento e rapporto con il nuovo contesto sono emerse
le due spinte di fondo che esistono dentro l’organizzazione, una in sostanza
dice che nel nuovo contesto bisogna starci adattando il modello e le pratiche
contrattuali e l’altra che chiede un riposizionamento strategico con la riscrittura
del programma fondamentale della Cgil. Una dice che nella stagione della
deflazione bisogna accettare la chiusura delle politiche salariali e lavorare a
quella di filiera, di sito. L’altra dice che bisogna riunificare i contratti
per rafforzare la nostra capacità contrattuale perché la contrattazione
nazionale è finita per come originariamente è nata. Landini ha chiesto di
coinvolgere gli iscritti, anche con consultazioni ad hoc per decidere insieme a
loro come proseguire la battaglia contro le politiche del governo Renzi e sulle
scelte organizzative Cgil. Rinaldini ha lamentato l’eccessivo ritardo di un
direttivo nazionale al 18 febbraio ed ha chiesto alla Camusso di anticiparlo.
Susanna Camusso nelle sue conclusioni ha risposto che la discussione è solo
avviata e che proseguirà nella due giorni sulla conferenza di organizzazione.
Il mio giudizio è che l’unica cosa vera che alla fine di questa due giorni si
può dire sia stata definita è la rottura con il PD. Cosa che di per se non
produce nulla ovviamente e che se non vedrà una ridefinizione della linea e
delle pratiche rischia di vanificarsi in un processo inesorabile di
sussunzione dentro il PD di tutta la
Cgil. Per il resto la montagna di una discussione
importante ha partorito il topolino. Si conferma la centralità dell’unità con
Cisl e Uil, e del sistema definito dal Testo Unico del 10 gennaio. Cioè
esattamente la continuità deleteria e devastante con le pratiche di questi
anni. Il No ad anticipare il direttivo nazionale Cgil sta a certificare la fine
della parabola di mobilitazione di questi mesi contro il Jobs Act.
La Cgil appare davvero in gravissima difficoltà ad immaginare una via d’uscita
da questa sua drammatica crisi di risultati concreti. O meglio, quella parte
che la drammaticità non la coglie perché si considera già parte del nuovo
modello sociale questa crisi non la percepisce, mentre Landini – che sa bene
quali devastanti implicazioni conoscerà l’iniziativa sindacale senza lo statuto
dei diritti dei lavoratori – non riesce a dire l’unica cosa che oggi la Cgil deve fare se davvero
volesse ricostruire un argine all’aggressione che governo e padronato
perseguono contro il mondo del lavoro: rompere con il modello del 10
gennaio, disdettare formalmente l’accordo che accetta la totale derogabilità
dei contratti e della legge.
Senza quella rottura ogni discussione su come
ricostruisci una contrattazione che risponda ai bisogni dei lavoratori è finta.
Il Jobs Act e l’accordo del 10 gennaio sono complementari. Il regime della
totale ricattabilità del lavoro funziona solo se si regge su un modello che
alimenta e autorizza la contrattazione di ricatto ed espelle il sindacalismo
conflittuale e viceversa. Il 10 gennaio, bisognerà riconoscerlo prima o poi ,
ha rappresentato l’estensione a tutti i lavoratori del modello Marchionne. Il
sindacato ai tempi di Renzi, ma non è solo un processo italiano, è destinato a
scomparire nella sua funzione originaria. L’unico spazio che gli viene concesso
è quello aziendale per la contrattazione di scambio, aziendalista. Quella parte
della Cgil che vuole davvero contrastare questa deriva deve ora rompere ogni
ambiguità, ogni attendismo. Lo diciamo a Landini che legittimamente ambisce a
divenire segretario della Cgil. Bisogna imporre con urgenza alla Cgil scelte
nette, inequivoche, rimettendo in campo la forza della Fiom: altrimenti la fine
di questa discussione senza scelte è già segnata. La Cgil ha più volte dimostrato
di non aver alcuna capacità di autoriforma.
Senza una rottura con la destra
interna, quella che per capirci reclama la normalizzazione totale, non
può esserci alcuna svolta. Non ci può essere alcun riposizionamento strategico
che tenga insieme chi fa i contratti svendendo diritti e salario e chi pensa di
aumentarli. Non abbiamo molto tempo per impedire che sia la linea della
normalizzazione ad imporsi in maniera strisciante. Dobbiamo muoverci subito
altrimenti sarà la Cgil
a conquistare Landini e non viceversa.
14 Gennaio 2015